Intervista ad Antonello Cresti – Solchi Sperimentali Italia

Pubblicato da Alessandro Violante il novembre 14, 2015

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Siamo lieti di presentarvi l’intervista ad Antonello Cresti, l’autore di Solchi Sperimentali Italia, di recentissima pubblicazione, che sta già avendo un grande successo non solo tra gli appassionati delle cosiddette “musiche altre”, tra le quali figurano alcuni dei generi di cui ci occupiamo più direttamente. Solchi Sperimentali Italia è un volume il cui valore risiede nell’invito a pensare al ruolo di primo piano avuto dal nostro Paese nella musica sperimentale e nello sviluppo di generi come l’ambient e il dark ambient, la musica industrial, il noise e molto altro, ma è anche un testo il cui linguaggio è fortemente innovativo: una sorta di Ipertesto trasposto su materiale cartaceo, una operazione, appunto, sperimentale, un volume da inserire nel proprio scaffale. Parliamone direttamente con Antonello Cresti.

1) Ciao Antonello! Ci introduci brevemente Solchi Sperimentali Italia, la tua ultima fatica?

Solchi Sperimentali Italia è, in qualche maniera, una continuazione del primo volume di Solchi Sperimentali, soprattutto dal punto di vista del procedimento, prendendo per buona la mia idea di sperimentazione, parola peraltro che io non amo neanche particolarmente, preferendo quella di musica di ricerca o, ancor meglio, “musica altra”, come viene definita nel sottotitolo. L’idea non è tanto di demarcare in maniera schematica un preciso genere musicale, ma di cercare di individuare, nella maniera più trasversale possibile, tutte quelle musiche che in ambito popular negli ultimi cinquanta anni contengano dei germi quantomeno di ricerca, di volontà di abbattimento delle barriere, di sperimentazione. Da questo punto di vista, ci sono delle musiche a più alto tasso di ricerca e altre meno, ma comunque quell’input lo possiamo trovare nella maniera più trasversale possibile.

Solchi Sperimentali Italia, tenendo caro questo approccio, tenta di districarsi in cinquant’anni di produzione relativa alla scena italiana dalla fine degli anni ‘60 ad oggi. Si parla di circa 300 artisti, 170 dei quali intervistati, e penso che, nonostante il lavoro non abbia velleità enciclopediche, esso cominci a fotografare il panorama italiano in maniera abbastanza affidabile.

2) Da recensore a recensore, nel libro parli di tantissimi artisti ed album, e spesso, per forza di cose, si parla di influenze musicali, e non solo. A volte, quando ascolto un album, mi interrogo sulla questione “influenze”, ovvero come sia possibile definire un determinato grado di influenza che un artista esercita su un altro. Te lo chiedo perché a volte le label scomodano influenze che magari non si trovano sui solchi dell’album di cui si parla (o comunque vi si trovano molto alla lontana), magari per invogliare ad un acquisto. Tu che ne pensi?

E’ una questione effettivamente divertente, nel senso che questo discorso delle influenze è un po’ l’ossessione con cui tutti dobbiamo purtroppo confrontarci. L’artista che fa musica, così come noi che ne scriviamo, deve in qualche maniera definire o trovare punti di riferimento, perché chi vuole appassionarsi a qualcosa sappia vagamente in che direzione un musicista si muove. La cosa buffa, però, è che, molto spesso, questo non fa incontrare l’ascoltatore con il produttore di musica, quindi, mentre quando un musicista crea, compone e registra un brano spesso ha in mente delle influenze, lui stesso ha in mente magari un artista che gli è caro oppure un tipo di arrangiamento, però ogni persona che ascolta quel brano troverà un riferimento differente, che magari, in piena onestà, l’artista non aveva neanche immaginato.

Da un lato questo può costituire una debolezza, nel senso che questa ossessione può risultare un po’ riduttiva, però dall’altro ognuno in un brano ci sente quello che vuole sentire, magari le influenze che fanno parte della storia dell’ascoltatore, del suo mondo di ascolti. Se considerato in maniera propositiva, questa può essere un’aggiunta. Mi è capitato di incontrarmi con artisti ai quali ho chiesto se quel determinato passaggio fosse stato ispirato da quella specifica canzone, facendoli cadere dalle nuvole e facendoli tornare ad ascoltare quel brano.

3) Parliamo di come artisti tra loro diversi per approccio producano più o meno album. Un artista sperimentale che sperimenta nel prog, in media produce meno album di quanti ne produca un artista che sperimenta nel power electronics, perché per il secondo ha più importanza l’atto della creazione, che è compulsivo (come qualcuno mi spiegò). Nella tua analisi di lavori così diversi, ti avvali di strumenti differenti e utilizzi approcci differenti, oppure sono sempre i medesimi?

Cerco in qualche maniera di mantenere stabile la valutazione, pur sapendo che si parla di ambiti veramente diversi. Riguardo alla pluri-produzione tipica di certi ambiti espressivi, aggiungerei che, per esempio, nella power electronics o in altri generi c’è anche un grande interesse verso l’oggetto, invece altri artisti lo hanno meno. Cerco però di far sì che, anche nelle differenze, qualsiasi tassello sia funzionale nel creare un affresco il più ampio possibile, e colgo l’occasione di questa domanda per spiegare la ragione principale per la quale non ho inserito determinati musicisti che mi hanno chiesto il perché di questa scelta. Sebbene per me alcune esclusioni siano state dolorose, ho una mia idea di coerenza narrativa in cui tutti i pezzi del puzzle devono stare bene insieme. Il lettore ovviamente ne avrà una diversa, questo è certo.

4) Rimaniamo sul filone power electronics per un altro po’. Nell’intervista a Iugula-thor, sono rimasto affascinato da quello che dice riguardo il fatto che più la musica è diretta, senza compromessi come il suddetto genere, più il meccanismo che rilascia le nostre pulsioni interne e quello che ci portiamo dentro è diretto, input / output senza particolari mediazioni. Se ne deduce che avvenga il contrario quanto più la musica sia strutturalmente complessa e i suoi arrangiamenti siano “classici”. Sei d’accordo con questo? Cosa ne pensi?

Mi interrogherei ancor di più su ciò che vuol dire “essere diretti”, non direi che c’è una relazione tra la complessità dell’opera e quanto essa sia più o meno diretta. Ogni lavoro ci può comunicare alternativamente un senso di artefazione, qualcosa di falso o comunque di costruito, oppure una forma di profonda autenticità, di emozione, e quest’ultima non dipende dai generi. Se dipendesse dalla complessità della musica, le ultime due sinfonie di Mozart non sarebbero in grado di comunicare direttamente qualcosa all’ascoltatore, quindi, piuttosto, direi che quel che conta è comunicare in maniera sincera il proprio mondo espressivo, sonoro. Questo può avvenire nel pop, in un brano strumentale in 11/8, nelle bordate power electronics.

5) Partiamo dall’attività di Francesco Messina per parlare di ambient in Italia. Da quello che emerge, il nostro Paese ha avuto una sorta di paternità del genere. Me lo confermi? Questa cosa mi sembra molto interessante, perché penso che non siano in molti a sapere quanto siamo importanti per questa musica.

Ne parlavo in radio un paio di giorni fa. Parlare di paternità nel genere ambient in Italia quando in Inghilterra ci fu un personaggio come Brian Eno mi sembra eccessivo, però penso, così come affermato dallo stesso Messina, che ci fossero delle energie che erano nell’aria nel momento in cui sono state captate in vari ambiti espressivi e in determinati ambiti geografici. L’odierna scena ambientale italiana ha una forza espressiva che non ha nulla da invidiare ad altre scene nazionali, ed è uno di quegli ambiti in cui mi sembra che i musicisti italiani si stiano facendo valere per personalità e per ispirazione nel migliore dei modi, allo stesso modo in cui, a cavallo tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli ’80, l’industrial italiano, pur essendo una creazione britannica, venne (e tuttora viene) considerato una delle scene più interessanti nel genere, dimostrando di avere delle proprie specificità, e questo è bello perché il miracolo si compie quando in Italia si realizza musica non derivativa, dotata di una propria identità.

6) E’ molto interessante come alcuni musicisti parlino della dimensione processuale del suono (faccio riferimento alla sezione Nova Musicha Akusmatika), così come se ne potrebbe parlare in termini di Arte Contemporanea (e non a caso quei musicisti si occupano anche di Arte Interattiva et similia), e mi sembra che chi ne studia la processualità tenda a distaccarsi da quei musicisti che compongono musica sperimentale magari perché affascinati dalle potenzialità degli strumenti a disposizione, come ad esempio quelli elettronici. E’ poi così importante, per qualsiasi musicista sperimentale, vedere il suono con gli stessi occhi di quegli artisti che si soffermano sulle sue caratteristiche intrinseche?

Stiamo facendo riferimento alla cosiddetta scena elettroacustica, che gode di una grandissima vitalità in Italia. Ho inserito, all’interno di una sezione del libro, una serie di protagonisti del genere, ben conscio di averne tralasciati moltissimi, proprio perché si parla di un ambito particolarmente attivo nel nostro Paese in questi ultimi anni. Si tratta di un ambito in cui il musicista ricerca, in maniera sempre più ossessiva ed esplicita, la concettualizzazione. Il suono viene approcciato come una sorta di materia viva da plasmare, da scolpire, uscendo parzialmente dal concetto estetico tradizionale che vuole la composizione come un insieme di note che deve in qualche modo comunicare un sentimento, una emozione, o qualcosa di simile. Qui invece l’idea è quella di lavorare direttamente sul suono come materia plasmata dal musicista-scultore, e questo lo porta ad interrogarsi in maniera più filosofica sulle origini del suono, sul tipo di interazione che egli vorrà apportare alla materia. Se dai una occhiata alle interviste, vedrai che ce ne sono alcune particolarmente approfondite come quella a Domenico Sciajno, forse l’artista che si è dilungato maggiormente. C’è in questi musicisti un bisogno di saldare filosofia, fisica, mente e suono, mentre altri musicisti, provenienti da ambiti diversi, operano in un filone più espressionistico, emozionale.

7) Te lo confesso: sono una di quelle persone che prima di leggere il tuo libro neppure immaginava che l’Italia avesse offerto così tanto in ambito sperimentale, così come nel dark ambient, nell’ambito dei field recordings, del progressive, dell’ambient, della musica elettronica, e, di conseguenza, si orientava molto spesso su produzioni straniere. Secondo te si parla abbastanza del nostro patrimonio musicale, ed è abbastanza valorizzato?

No, per due ragioni: la prima è che, al di là della preclusione che talvolta ci può essere quando le produzioni non provengono da certi paesi – e sottolineo la parola talvolta – perché i musicisti italiani sperimentali sono spesso più apprezzati all’estero che in Italia, e porrei purtroppo l’attenzione sull’errato atteggiamento da parte nostra, perché non ci sappiamo valorizzare e proporre, siamo troppo spesso in lotta tra orticelli quando, al contrario, dovremmo viaggiare in maniera unita nella medesima direzione; la seconda è che paghiamo un po’ quella che è l’immagine globale dell’Italia dal punto di vista musicale, ovvero quella di un Paese che, a parte rarissime eccezioni, quando si parla di rock o di pop, effettivamente non ha nulla da dire.

Parlerei con grande trasporto di certe cose che son state e vengono ancora espresse in Italia, ma non posso tacere il fatto che, se mi si chiedesse un giudizio globale sul rock italiano, non potrei non ritenerlo pessimo, e lo stesso vale per il pop. Quando apro le riviste musicali e vedo tanto spazio dedicato a questa cosiddetta scena “indie” dei nuovi cantautori, penso che si stia perdendo tempo ed energia di fronte a prodotti che non solo non hanno niente da dire, ma che probabilmente risultano anche controproducenti per l’immagine del nostro Paese tra gli ascoltatori che invece chiedono qualcosa di più alla musica, perché l’Italia ha tanto da offrire, però bisognerebbe cominciare a guardare in un’altra direzione rispetto a quello che gli addetti ai lavori spesso privilegiano.

8) Premesso che in Solchi Sperimentali Italia le interviste occupano un ruolo importantissimo, sia perché sono veramente tante ma anche perché aiutano a capire meglio la poetica dei musicisti, ti chiedo come le hai realizzate. Hai privilegiato l’incontro diretto, l’intervista telefonica, l’invio di un file con le domande lì contenute? Tu quale metodo preferisci?

Più che di metodo preferito, si tratta di un metodo che agevola il più possibile il lavoro, e, con molta chiarezza, ti devo dire che un lavoro così esteso come quello di Solchi Sperimentali Italia sarebbe stato probabilmente impossibile da realizzare senza l’esistenza dei social, e, grazie a questi, un buon 80% degli artisti è stato contattato e abbiamo avuto uno scambio di domande via email o per iscritto. C’è poi una percentuale minore di artisti, prevalentemente i più noti, le cui interviste sono state svolte telefonicamente. Nessuna intervista è stata svolta live, perché, sebbene con alcuni di loro ci fossimo visti di persona, in quel momento stavo già scrivendo e non colsi l’occasione. Inoltre, volevo che la mia scrittura e l’intervista viaggiassero su due binari separati, che non si influenzassero vicendevolmente. Come ho scritto nell’introduzione del libro, questo mettere insieme le mie valutazioni critiche nell’intervista è stato una sorta di blind date: quando sono andato a rileggerle, è stato divertente vedere quando alcune valutazioni si incrociavano e quando invece differivano tra loro. Ho preferito lasciare il massimo spazio possibile agli artisti.

9) I contenuti del libro vengono presentati in modo molto particolare: ci sono icone, codici QR, gli “Incroci” che ricordano i link ipertestuali, e una maniera intelligente di citare i titoli degli album all’interno delle “recensioni”. Ti sei ispirato alle logiche di funzionamento del Web?

Si, l’ipertestualità è importantissima, visto che ci troviamo nell’epoca del Web e della comunicazione veloce. Io sono per la resistenza del libro, perché ritengo che esso non possa essere sostituito dal Web e dalla comunicazione virtuale, però cerco di scrivere qualcosa che avvicini un po’ la comunicazione scritta a quella più veloce del Web, quindi ci sono i codici QR, che consentono di ascoltare “in diretta” la musica mentre si legge, ed altri espedienti utilizzati all’interno di ogni discografia per non dover ripetere sempre i titoli degli album. Ho utilizzato una numerazione: se parlo di tre album di un artista, assegno a ciascuno di loro un numero progressivo, numero che poi richiamo nel testo. E’ l’unico criterio enciclopedico che ho utilizzato, un criterio che avevo già visto in un libro uscito più di vent’anni fa, l’Enciclopedia del Rock Italiano, che si fermava al 1993.

10) Mi parli brevemente, se possibile, dei tuoi progetti per il prossimo futuro? Quel che di certo so è che stai presentando in giro il tuo libro a moltissime persone.

Nell’immediato faccio una promozione che sia realmente attiva. Il libro è un pretesto per incontrare, in giro per l’Italia, le persone interessate al genere musicale, che cercano qualcosa di differente dalla musica, e inoltre la presentazione del libro è un pretesto per far avvenire occasioni performative: non mi interessa andare in giro per le librerie e fare tradizionali presentazioni, ma piuttosto dare la possibilità ai musicisti di esibirsi, e magari di creare collaborazioni grazie a questi momenti. In questo modo, il libro, a parte quelle che possono essere le sue mancanze, vuole essere una porta di accesso verso una serie di iniziative che partono dal libro per proseguire nelle presentazioni, ma eventualmente, come mi hanno detto alcuni, si potrebbe fare un festival, oppure aprire un canale YouTube specifico. Tutto quello che seguirà al libro sarà buona cosa, perché offrirà un contributo addizionale alla conoscenza e vorrà dire che l’input iniziale avrà generato buoni frutti.