Pubblicato da Alessandro Violante il febbraio 10, 2016
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Le urla disperate, espresse sotto forma di musica noise, di una specie umana in viaggio verso un progressivo ed inarrestabile rovesciamento dei valori. Questo è Knots of fear, secondo album di Empty Chalice, qui a firma Gopota, un progetto che comprende anche il musicista Vitaly, uscito per la russa Torga Amun.
E’ lampante, ascoltando questi nove brani, il lamento di un uomo postmoderno che ha perso la propria identità, che è passato dal sogno di una grande città Ruttmaniana al suo personale bad trip a bordo di un alienante e terrorizzante treno del Trans-Europe Express, in un viaggio che apparentemente non ha una destinazione finale. Sembra talvolta di ascoltare in sottofondo una flebile spinta vitale, un richiamo seppur lontano ad una fonte di ispirazione per antonomasia come la kraftwerkeriana Metal on metal, sommersa da una pesante pioggia cacofonica che tutto copre e soffoca.
Nove anelli di paura come i nove gironi infernali danteschi in cui l’individuo vaga senza meta e in cui le pesantissime ritmiche siderurgiche, direttamente provenienti da enormi fabbriche di morte, si scatenano violentissime con un ritmo metronomico, alienanti, soffocanti, così come i costanti giochi tra tensioni e distensioni emotive, ben rappresentati musicalmente dal mutamento dei flussi rumoristici, evidenziano il respiro affannoso e disperato dell’uomo che ha perso la propria identità, che è diventato una vittima di un mondo dominato dalla perfezione frustrante della macchina, l’elemento imperfetto di un universo tetro ma formalmente impeccabile, quello dello 0 e dell’1, dell’input e dell’output. Lo sguardo del protagonista della cover artwork è perso e spaventato, letteralmente mangiato e rigurgitato dalla macchina che egli stesso ha contribuito a creare, da un mondo cent’anni prima osannato ed applaudito da Marinetti e dai Futuristi, ma che ha poi rivelato la sua vera natura.
Knots of fear scorre tra brani che riprocessano un disperato beat che tenta di risollevare un’umanità persa sotto quintali di petrolio e cacofonia (Mindless use, un titolo chiarissimo che esprime come l’uomo venga chiamato ad azionare la macchina senza pensare, perchè è la macchina che pensa per lui), le già citate tensioni e distensioni seguite da ciclici ritmi durissimi fatti di metallo puro (come in un collage), il disperato pianto dell’uomo privato di una identità in Agony of a pipe dream (un sogno andato in frantumi sfociato in abbondanti lacrime metalliche) e i lunghi viaggi verso terre desolate in Long road in the dunes e Nebel, che rievocano le ambientazioni di film come 2013 La Fortezza. C’è poi, in Online periphery, anche spazio per una conclusiva riflessione sulla perdita dell’identità umana nello spazio virtuale del Web, un apparente rifugio sicuro in cui poter scaricare la propria frustrazione di essere umano privato della propria libertà, macchiato dalla forza della macchina, ma rivelatosi poi solo una gabbia dai confini meno definiti e dalle libertà molto discutibili.
Un disco negativo? Sì, decisamente, ma non nella qualità. D’altronde ai Gopota non è interessato fare un disco felice, che esprimesse una forzata positività, ma che evidenziasse piuttosto un fortissimo disagio interiore. Un lavoro che guarda più a Stalker che a Blade Runner, il cui scenario non è una metropoli postindustriale ma il non-luogo dell’alienazione postmoderna, un luogo mentale. I Gopota sono riusciti egregiamente nello scopo.
Label: Torga Amun
Voto: 7, 5